lunedì 9 aprile 2012

Nessun uomo è un'isola

Anni fa, leggendo superficialmente le parole di un maestro, mi convinsi che quella fosse l'unica maniera per progredire nella pratica del Budo.
Egli parlava apertamente di quanto il Budo fosse pratica al singolare, di quanto si trattasse di intima autodisciplina, e che quindi noi e solo noi fossimo il vero motore della crescita.
Tutto ciò che si faceva, in ultima analisi, era per un qualcosa di finemente egoistico, perchè l'obiettivo era sempre e comunque rivolto verso le nostre abilità, verso la nostra autoeducazione, verso una crescita del singolo a discapito di una massa che non aveva interesse ad evolvere veramente.
Anni fa, questo.
Poi le cose cambiarono, in qualche modo io maturai e con me le mie convinzioni, che reputavo non incrollabili (e forse questo è il punto), mutarono. Per fortuna.
La condivisione con molti, se non degli stessi obiettivi (perchè l'Aikido è vasto e malleabile, anche per questo) certamente della mia stessa passione, mi portò ad allargare il soggetto di tutta la mia concentrazione. Gradualmente mi accorsi che il vero soggetto non potevo essere solo e soltanto io.
L'Aikido ha una didattica strana. La "base" passa attraverso l'uso (lo studio) di esercizi, che stabiliscono a priori reazioni e comportamenti, sia nostri che del nostro compagno di allenamento.
E' pratica a due, costante, ma non immobile. L'esigenza di imparare un linguaggio, per far si che vi sia vera interazione tra i soggetti alla fine, non può che portare all'evolvere di entrambi.
In poche parole, imparai a comprendere e ad avere a cuore l'evoluzione non solo mia, ma anche del mio compagno attraverso la pratica.
Come se non avessi mai "visto" realmente, compresi che la natura intima di questo Budo non potesse prescindere dalla crescita comune, forzandomi a volere, pretendere, un miglioramento che non fosse solo il mio. Più io miglioravo, più avevo bisogno che gli altri intorno a me, migliorassero.
Era necessario per la mia stessa evoluzione. Dunque cominciai a mettere in dubbio la mia comprensione delle parole del maestro, che tanto avevano fatto presa sul mio immaginario. Come poteva essere pratica egoistica, se per il vero progredire c'era una dipendenza così profonda dall'altro? E' vero, il primo obiettivo poteva non essersi spostato di una virgola (l'autoperfezionamento), ma sicuramente lo stato interno con cui affrontavo la pratica si.
L'Aikido è un'Arte strana. Per la sua comprensione sempre più alta, sempre più vicina alla vera padronanza, sempre più vera e meno confinata in schemi e strutture, ha il vitale bisogno di almeno un altro essere umano. E come è vitale questo, è vitale che questi migliori insieme a me.
Comprendere questo è comprendere che nessuno può davvero migliorarsi senza il contributo degli altri, che nessuno può recitare sul serio la parte del samurai solitario, perchè da solo, egli stesso non potrà fare un passo. Nessun uomo è un'isola come recitava John Donne, neanche (e forse ancor più) nell'Aikido.
Esistono due ruote nel Budo, diceva sempre lo stesso maestro: "Servono due ruote per mandare avanti il carretto, con una sola non potremmo muoverci, al più girare in tondo su noi stessi".
Due ruote sono fondamentali.
Le due ruote (che nascondono ancora e ancora significati), siamo anche noi persone signolari, e il gruppo in cui ci alleniamo. Il gruppo che sosteniamo e che ci sostiene, se è il progredire sempre di più, il nostro vero obiettivo.
Lasciare da parte egoismi e protagonismo è vitale, perchè non è quello "vero egoismo", volersi bene davvero è voler bene anche all'altro, rimanere soli è ridursi allo sterile, senza progressi.

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