martedì 25 dicembre 2012

Fondamentale

‎-What is the difference between "fundamental techniques" and "basic techniques"?

-The fundamental techniques are primary. If we draw a parallel with mathematics, the fundamental techniques would be akin to the Five Principles of Euclid. Those fundamental principles are the basis of applied geometry. Since the fundamental techniques are like maxims, there are no movements in Aikido that violate those principles. Basic techniques are those techniques deduced from the fundamental techniques, during training the proof of the maxims is clearly demonstrated.
There are those who like to make up their own maxims, but this is not possible in Budo. All the movements have to follow natural principles, and cannot be artificially constructed.
Here is an example:If you drop a stone it will fall to earth because of gravity, and that principle can never be challenged. It is a maxim that must be observed, and once that is understood as a base it can be utilized. From that fundamental maxim, the basic movements emerge, and from the basic movements variations spring forth.

Kisshomaru Ueshiba Doshu



Nel video, un giovanissimo Endo Seishiro come uke.

giovedì 1 novembre 2012

it’s some kind of madness, is started to evolve

L'uso della forza.
L'uso delle giustificazioni.
Per quanto ben addobbate.
Per quanto accettabili.
Sono solo giustificazioni.
Senza forza, è più di un concetto.
E' più di un "uso ragionato", sì.
E' proprio così.
Le tue giustificazioni "sono", perché non puoi abbandonare una zona confortevole.
Dove ti trovi bene.
Dove hai abitato per tanti anni.
Che ora non vuoi, abbandonare.
Senza forza è uscire dal tuo posto confortevole.
E' abbandonare. Ogni giustificazione.
E', finalmente, realizzare ogni armonia.
Essere in armonia.

Forse.

sabato 20 ottobre 2012

L'Aikido non si ferma dove arrivi tu

"Studiare senza riflettere è totalmente vano, ma riflettere senza studiare è pericoloso".

Confucio



La pretesa, generalmente, è che l'universo sia racchiuso nella nostra "visione" dello stesso.

Così accade, e non può certo essere altrimenti, che lo stesso modello interpretativo, vada ad applicarsi senza soluzione di continuità, a tutto ciò che personalmente classifichiamo, a tutto ciò che pensiamo (per forma mentis), di conoscere.
Tra queste "cose" che pensiamo di conoscere, non possiamo che annoverare anche l'Aikido, va da sé.

Così accade una seconda volta, e piuttosto naturalmente, di voler includere, all'interno di un'opinione che ci si è fatti sull'Aikido nello specifico, anche tutti gli altri.
Esatto, anche tutti gli altri.

Spiego: si può supporre per semplicità, che la pratica prolungata di un'attività(?) come la nostra, possa aiutarci a discernerla approfonditamente, al punto da credere, per via di ciò di cui sopra, che l'intendimento nostro, e della pratica, e dell'arte stessa, sia l'intendimento di tutti.
E' cosa, questa, da distinguere bene dal banalissimo pensiero:"Come lo faccio io ikkyo è giusto, come lo fate voi no", non si tratta di divisioni più o meno fittizie (anche queste proprie della nostra forma di pensiero), ma casomai del suo contrario.
Si tratta di includere, nella personalissima visione di ognuno di come si faccia ikkyo, ad esempio, anche tutto il resto dei praticanti.
In modo tale che questa sorta di ragionamento, falsamente ci protegga.
In modo tale che se un giorno, per fato o chissà, ci venga empiricamente e ampiamente dimostrato che tutto ciò che pensavamo a riguardo del "nostro ikkyo", semplicemente non è così, ma è solo nostro attaccamento e basta, ecco quel giorno potremmo tranquillamente giustificare il nostro personale, circoscritto errore, come errore di tutti. Per proteggerci in un'illusione, dalla delusione.

E' bene, come al solito, prendere attentamente coscienza di questa illusione, farsene carico come campanello d'allarme per il prossimo giro, per la non tanta improbabile ipotesi che l'occasione si ripeta, che il pensiero si riformuli, e che non ci si ricaschi nuovamente.

Da non occorrere più nell'espressione plurale, quando questa è singolarissima, dal non generalizzare, perché io sono arrivato solo fin lì, allora noi tutti si è arrivati fin lì.
Non è così, non è così.





sabato 18 agosto 2012

Per andare dove dobbiamo andare...

La fauna di Roquebrune è sempre bella variegata.

Vi ho trovato, come sempre da quando vi partecipo, una qualità generale ottima. Ma anche no.
Mi spiego.
E' vero, ed è vero lo ribadisco, che uno stage del genere è assolutamente fondamentale e ricchissimo di spunti su cui lavorare durante l'intero arco dell'anno (ho sempre l'impressione di "finire i sacchetti" anzitempo, dove raccogliere tutto il lavoro che lo stesso Tissier parsimoniosamente distribuisce), ma è ben più di una possibilità trovare, tra i tanti che calcano il tatami francese dalle più disparate regioni dell'Europa e oltre, un livello non poi così "superiore", che sopperisce piuttosto e di molto, la propria incapacità tecnica (vittima di troppa approssimazione e della velocità d'esecuzione, forse), con un eccessivo uso della forza muscolare, quasi a divenire non più un allenamento che fonda le sue basi sullo studio tecnico in primis, ma piuttosto una sorta di gara d'atletica, dove a spuntarla in misura decisamente subordinata è l'Aikido, quando dovrebbe essere il contrario.
Preciso: non sono di quelli che pretendono una pratica senza sforzi anzi, deve essere fisicamente impegnativa, ma per questo intendendo sempre un uso ragionato della forza, non un inutile dispendio, nonché rischiosissimo del farmi mancare/fraintendere l'obiettivo dell'allenamento.
Bisogna preparare il proprio fisico. Poiché è di li che si passa.
Ma bisogna evitare che questo divenga il nostro principale scopo, che la tecnica si esaurisca su una prova di forza e velocità, che il tutto ci decentri dall'ascoltare il momento del contatto, dalla dinamica dell'azione, che divenga appunto sforzo fine a se stesso, per il gusto di cosa, poi?
C'è una bella differenza - tanto per parafrasare un Maestro - tra l'essere dei buonissimi atleti ed essere budoka.
E sul tatami di Roquebrune, questo rischio, questa differenza alcune volte, si corre e si vede.
E me ne dispiaccio molto.

Ma ne dispiaccio perché vedo in questo, il grande torto che si fa all'anfitrione di casa, ad un Christian Tissier attentissimo nella ricerca della didattica più limpida possibile, consapevole del rischio.
Ma nonostante, accade.

Ed è così che mi ritrovo negli ultimissimi minuti di uno stage sudatissimo, a scambiare con un collega che come una perfetta macchina programmata, ripete pedissequamente le "immagini" che ha appena visto, ad una velocità degna dei centometristi, ma con un piccolissimo particolare (da non poco): scordandosi completamente del sottoscritto.
Cioè, scordandosi di quello che dovrebbe essere il centro del suo interesse.

Ora, il sottoscritto solitamente, al primo contatto con un collega appena conosciuto, cerca sempre di essere attentissimo a tutto ciò che accade, "presente il più possibile", sintetizzerei.
E di rimando, normalmente, ottengo la stessa attenzione. Ed è su queste basi, su questa partenza che ripongo tutta la fiducia possibile per un lavoro costruttivo per entrambi.
Chiaro diviene il mio disappunto, quando mi accorgo che il partner, "viaggia da solo e pure spedito".
Ed è qui allora, che mi sento in dovere di intervenire, ed introdurre la terribile e temutissima possibile variabile.
Cosa accade infatti, se nel nostro lavoro programmato fino all'ultimo movimento, il compagno con cui ci troviamo a scambiare, improvvisamente, cambia qualcosa?
Dramma. Blocco. Impossibilità di rimettere insieme i pezzi e ripartire.
Questo accade, quando ci si concentra troppo su un'immagine, sulla forza e la velocità che ci sembra di scorgere nel nostro modello, al quale vorremmo tanto somigliare.
Ed è questo che è accaduto. Con mio dispiacere, come dicevo poc'anzi.

Come nella famosa scena con Peppino e Totò: la primissima preoccupazione non è conoscere a tutti i costi il luogo della destinazione, ma essere padroni del linguaggio opportuno.
Solo così si può veramente dialogare e non finire a far monologhi, magari ironici, magari anche bellissimi da vedere, ma del tutto scollegati e privi di quel senso, che l'Aikido dovrebbe invece sempre tener presente.

venerdì 3 agosto 2012

L'arte segreta della pialla da falegname

L'uso della pialla da falegname comprende tre stadi: la sgrossatura, la levigatura intermedia e quella fine.
Nel piallare di grosso il corpo viene mantenuto fermo, l'addome irrigidito, le anche messe nella giusta posizione, si mette forza uguale nelle due mani e si procede. 
In breve, si mette forza in tutto il corpo senza potersi rilassare; non si può piallare di grosso se non con forza.
In seguito si esegue una piallatura intermedia: stavolta non si deve usare tutta la forza; il tocco naturale delle mani aumenta e diminuisce la pressione, questo livello è una preparazione per quello successivo. Se però la continuità tra sgrossatura e la piallatura intermedia viene interrotta dalla mancanza di concentrazione, il lavoro non potrà essere eseguito ad arte.
Dalla piallatura intermedia si passa a quella di fino; qui si lisciano le irregolarità lasciate dagli stadi precedenti.
Se si sta lavorando su un pilastro, si deve andare da cima a fondo, con un unico movimento della pialla. Andando da cima a fondo, è fondamentale mantenere il cuore in perfetto ordine.
Se il cuore non è in ordine, compariranno varie irregolarità e il lavoro non potrà essere condotto a buon fine.
Il segreto è il giusto controllo.
Mente, corpo e tecnica devono funzionare assieme nello stesso modo. "Mente, corpo e tecnica" corrispondono a "pialla, carpentiere e pilastro". Se si pensa che sia il carpentiere a piallare, a che serve la pialla? Se si pensa che sia la pialla a piallare, a che serve il pilastro? Mente, corpo e tecnica funzionano assieme in modo simile a quello di pialla, carpentiere e pilastro; se non si capisce questa interdipendenza non si sarà in grado di fare un bel pilastro per quanto ci si eserciti con la pialla.
Per fare un bel pilastro, bisogna cominciare con lo sgrossare. Una volta padroneggiato questo stadio, si potranno padroneggiare gli altri due.
La piallatura di fino è la "tecnica segreta". Questa tecnica segreta non è niente di speciale; alla fine si dimenticano mente, corpo e tecnica e si procede senza intoppi fino a completare il lavoro.
Non pensare più a finire la lisciatura e non parlare più di tecnica o di altro è uno stato d'essere meraviglioso.
E' inutile chiedere come si possa raggiungere questo stato - la lisciatura di fino si può imparare da soli; non si può mai ottenere da un altro.

Yamaoka Tesshu, Aprile 1884



Ci sono ancora molte cose "oscure", per il sottoscritto, dentro questo breve insegnamento di Tesshu.
Ma di certo, alcuni degli aspetti che egli descrive rispecchiano perfettamente quello che è il mio stato d'animo attuale. Come insegnante, come Budoka, come essere umano.
E tali aspetti "risuonano" ancora più forte, ogni qual volta mi ritrovi ad un bivio, che sia questo un piccolissimo viaggio, come quello che sto per intraprendere, o qualcosa di davvero determinante per il mio futuro.
Ed è qui che mi fermo, appunto, a chiedermi dove io sia, veramente.
Tra non molto tempo, forse, dovrò sostenere l'ultimo esame per il passaggio di grado, che nella federazione di cui faccio parte è il IV Dan.
L'ultima occasione di essere esaminato da una commissione nazionale di alti gradi della disciplina, l'ultima occasione formale, di dimostrare quello che è il mio Aikido, la mia espressione di tale Arte, che cosa ho veramente capito io. Qualcosa di mio, meglio, qualcosa di me, qualcosa che sia io.
Ed è arduo, scegliere di non scendere a compromesso alcuno.

venerdì 8 giugno 2012

Misunderstanding

"Cerco sempre di fare musica per come sono io. La ragione per cui è difficile, è che cambio continuamente".

Charles Mingus


La domanda è: quanto si rischia, nella pratica, di credere di fare un qualcosa, mentre in realtà si sta facendo tutt'altro?
O per essere più spicci: quanto siamo convinti di fare Aikido, quando poi tutto ciò che ci riduciamo a mostrare, non è altro che una tristissima pantomima?

Ecco, non so voi, ma io della pantomima sono stanco.
Sono arcistufo di sprecare del tempo.
Già, il tempo. Se c'è una cosa a cui dovremmo ricondurci (una delle), quando siamo impegnati nella pratica (quale pratica è ancora tutta da stabilirsi) sul tatami, è proprio nel cercare di ottimizzare al meglio quello che è il tempo che dedichiamo ad essa.
E se tanto mi da tanto (e né voi né io si è dei pazzi, oltre che degli illusi), il tempo da dedicare alla pratica del Budo (disclaimer di questo blog: l'Aikido per il sottoscritto è Budo, contestualizzando, tutto il resto non mi interessa e se si, in misura comunque decisamente minore), è sempre ridottissimo, rispetto alla miriade di impegni che ci vedono coinvolti quotidianamente, tra lavoro, famiglia e rapporti sociali in genere.
Quindi, dopo questa sottospecie di premessa bella contorta, torniamo a noi.

E' davvero necessario inquadrare attentamente ciò che ci si appresta a cominciare, quando si indossano gi e hakama, e si pretende di "fare Aikido".
Perché, più frequentemente di quel che si crede, si finisce con il fraintendere (in buona fede anche, perché no?),  non solo negli obiettivi (che già di suo, sono un bel grattacapo), ma addirittura in partenza, ovvero nell'atto stesso in cui fisicamente esprimiamo dei movimenti, delle forme, che illudono la nostra parte cosciente, nella convinzione che esse stesse siano l'oggetto principale del nostro allenamento, che esse stesse siano l'Aikido.
Ecco, no.
Le forme sono forme, non sono Aikido.
Sono l'introduzione all'Aikido semmai, ma non l'Aikido.
Quando siamo impegnati nell'esecuzione del nostro yonkyo più bello, non è nello yonkyo che stiamo centrando davvero lo scopo. Crediamo che sia così, certo, ma non è lì che dovrebbe esser focalizzato il nostro studio.
Il nostro studio, per scongiurare la pantomima di cui inizialmente parlavo, è nel cercare di far sì che lo yonkyo da noi messo in scena (vi prego di notare questo ossimoro, ben più che linguistico), funzioni.
Ecco, mi è già capitato di affrontare tale tema su questo medesimo, ma è bene per la comprensione del discorso generale, fare degli ulteriori appunti.
Yonkyo, se spiegato pazientemente per una decina di minuti, può farlo anche il mio nipotino di cinque anni (a proposito, ciao Riccardo!).
Dunque, sta mio nipote davvero facendo dell'Aikido? Sono ipermegastrasicuro che unanimamente si è levato da parte vostra (con anche un certo piglio di sufficiente sarcasmo), un corale ed unisono "no!"
No, infatti.
Ma perché? Perché è una vuota imitazione di un movimento, più o meno complesso, ma completamente privo di significato. Non ha un fine. E se non ha un fine, non può certo avere una funzione da espletare, giusto?
Quando noi, orgogliosissimi, realizziamo il nostro yonkyo nel dojo invece, pensiamo che questo in effetti un fine ce l'abbia, che sia compiere la sua funzione, che è quella del neutralizzare, attraverso la tecnica, un attacco. E per far ciò, impariamo tutta una serie di movimenti, in cui andremo, per ultimo, a mettere la nostra amata tecnica. Ma di nuovo, siamo sicuri che tutto questo sia Aikido?
Non è pantomima anche questa? Certo, più complessa, perchè è l'unione di una serie di movimenti schematici, ma realizzabile solo a patto che l'uke con cui stiamo lavorando, sia nelle nostre mani (perdonate la violenza provocatoria), niente più che un fantoccio.
Ma se dunque di questo si tratta, allora la funzione che credevamo possibile, è vanificata del tutto, da funzione passa irrimediabilmente a finzione.

Proprio qui, proprio ora, diviene quindi indispensabile, ragione principale a cui dedicarsi con tutto l'impegno possibile, comprendere.

Comprendere che nel Budo è essenziale, vitale, la presenza delle "due ruote" ( ve l'avevo anticipata, la pluralità di significati): interferenza e armonia.
Perché è così in natura, perché è così l'anima stessa del combattimento.

In natura, l'armonia esiste, perché essa stessa è equilibrio di contrasti.
E a pensarci bene, seguendo questa logica di cui l'approssimazione è colpa solo mia, e qui mi scuso, che senso ha praticare delle forme che divengono effettivamente prive di significato, se il nostro partner è burattino senza di vita?
L'Aikido funziona contro chi ci aggredisce, non contro chi accomoda i nostri errori.
Quello che avviene senza contrasti, non ha bisogno di Aikido.
E senza questo bisogno, quello che accade è messa in scena, non verità. E voi ormai, dovreste sapere quanto mi sta a cuore questa faccenda della verità.

Comprendere, diviene quindi vitale. Perché solo grazie a questa comprensione (faccio quel che faccio, perché so quel che faccio), è possibile costruire.
La costruzione è logica (la logica è qualcosa di cui sempre ho subito il fascino), il cui fine (funzione), è quello di arrivare ad essere davvero liberi.
Ma liberi di una libertà "dotta", che non si vanifica da sola, ma produce.
Per questo pratichiamo il kihon no kata, perché se no?
E grazie a questo studio matto e disperatissimo, che sarà forse possibile scorgere la vera verità, che non è fare tutto quello che ci pare, ma fare la cosa giusta al momento giusto, con piena coscienza.


lunedì 23 aprile 2012

Intermezzo

"Allo stesso modo nel nostro spirito, la minima traccia di Ego si attacca al mondo e cerca di impadronirsene e fissarlo.
Io cerco di praticare l'Aikido senza attaccamento, come uno specchio.
L'attaccamento fa nascere lo spirito combattivo; ma l'Aikido è una ricerca della vera libertà, libertà che si ottiene modellando il corpo come un buon fornaio impasta il pane;
non si tratta di un metodo di distruzione.
Nell'Aikido c'è la libertà dello specchio."


Osawa Kisaburo Sensei

lunedì 9 aprile 2012

Nessun uomo è un'isola

Anni fa, leggendo superficialmente le parole di un maestro, mi convinsi che quella fosse l'unica maniera per progredire nella pratica del Budo.
Egli parlava apertamente di quanto il Budo fosse pratica al singolare, di quanto si trattasse di intima autodisciplina, e che quindi noi e solo noi fossimo il vero motore della crescita.
Tutto ciò che si faceva, in ultima analisi, era per un qualcosa di finemente egoistico, perchè l'obiettivo era sempre e comunque rivolto verso le nostre abilità, verso la nostra autoeducazione, verso una crescita del singolo a discapito di una massa che non aveva interesse ad evolvere veramente.
Anni fa, questo.
Poi le cose cambiarono, in qualche modo io maturai e con me le mie convinzioni, che reputavo non incrollabili (e forse questo è il punto), mutarono. Per fortuna.
La condivisione con molti, se non degli stessi obiettivi (perchè l'Aikido è vasto e malleabile, anche per questo) certamente della mia stessa passione, mi portò ad allargare il soggetto di tutta la mia concentrazione. Gradualmente mi accorsi che il vero soggetto non potevo essere solo e soltanto io.
L'Aikido ha una didattica strana. La "base" passa attraverso l'uso (lo studio) di esercizi, che stabiliscono a priori reazioni e comportamenti, sia nostri che del nostro compagno di allenamento.
E' pratica a due, costante, ma non immobile. L'esigenza di imparare un linguaggio, per far si che vi sia vera interazione tra i soggetti alla fine, non può che portare all'evolvere di entrambi.
In poche parole, imparai a comprendere e ad avere a cuore l'evoluzione non solo mia, ma anche del mio compagno attraverso la pratica.
Come se non avessi mai "visto" realmente, compresi che la natura intima di questo Budo non potesse prescindere dalla crescita comune, forzandomi a volere, pretendere, un miglioramento che non fosse solo il mio. Più io miglioravo, più avevo bisogno che gli altri intorno a me, migliorassero.
Era necessario per la mia stessa evoluzione. Dunque cominciai a mettere in dubbio la mia comprensione delle parole del maestro, che tanto avevano fatto presa sul mio immaginario. Come poteva essere pratica egoistica, se per il vero progredire c'era una dipendenza così profonda dall'altro? E' vero, il primo obiettivo poteva non essersi spostato di una virgola (l'autoperfezionamento), ma sicuramente lo stato interno con cui affrontavo la pratica si.
L'Aikido è un'Arte strana. Per la sua comprensione sempre più alta, sempre più vicina alla vera padronanza, sempre più vera e meno confinata in schemi e strutture, ha il vitale bisogno di almeno un altro essere umano. E come è vitale questo, è vitale che questi migliori insieme a me.
Comprendere questo è comprendere che nessuno può davvero migliorarsi senza il contributo degli altri, che nessuno può recitare sul serio la parte del samurai solitario, perchè da solo, egli stesso non potrà fare un passo. Nessun uomo è un'isola come recitava John Donne, neanche (e forse ancor più) nell'Aikido.
Esistono due ruote nel Budo, diceva sempre lo stesso maestro: "Servono due ruote per mandare avanti il carretto, con una sola non potremmo muoverci, al più girare in tondo su noi stessi".
Due ruote sono fondamentali.
Le due ruote (che nascondono ancora e ancora significati), siamo anche noi persone signolari, e il gruppo in cui ci alleniamo. Il gruppo che sosteniamo e che ci sostiene, se è il progredire sempre di più, il nostro vero obiettivo.
Lasciare da parte egoismi e protagonismo è vitale, perchè non è quello "vero egoismo", volersi bene davvero è voler bene anche all'altro, rimanere soli è ridursi allo sterile, senza progressi.

domenica 26 febbraio 2012

Conosci la tua velocità

E' essenziale conoscere la propria velocità.

Quando pratichiamo. Ma anche non. Cosa vuol dire esattamente conoscere la propria velocità? Sapere quanto facciamo nei 200 metri? No. Non si tratta di questo ovviamente, come sempre. Conoscere la propria velocità significa non spaventarci di fronte all'inaspettato, gestire il momento dinamico della tecnica senza accelerare (la paura, la foga nel concludere la tecnica, come se avessimo qualcuno che tiene il nostro tempo) ma armonizzandoci con il nostro partner d'allenamento, saper valutare il momento di un'entrata, l'inizio di uno squilibrio, così come il fermare l'azione se è necessario, se non vi è risposta, comunicazione, se è così che ha scelto la persona che con noi sta praticando Aikido in quell'esatto momento.
Conoscere questo, significa in misura sottile conoscere meglio noi stessi, la nostra paura appunto, che va gestita, non allontanata frettolosamente (indagata, piuttosto: perchè abbiamo paura? Che cosa ci fa paura?), ci permetterà di poter finalmente valutare quello che è il prossimo passo, così importante, fondamentale, sia che ci si ritrovi su un tatami, sia nella vita di tutti i giorni. Non crederete mica, che l'Aikido serva solo a sconfiggere gli avversari immaginari che la nostra mente va a creare (il cattivo dei film di Steven Seagal)? Divene molto più utile e profondo, se si riesce ad andare oltre questa lucida superficie che ci rassicura, ma che è immaginaria, dunque ci inganna per davvero. Il prossimo passo, che è sempre evoluzione nel cammino, che ci deve accompagnare. E si tratta di cammino, non di "corsa", dunque sapere a che velocità andiamo, comincia così ad essere notizia rilevante, per nulla da ignorare.
Ma se è vero tutto questo astratto, quanto è vero nel momento del confronto, tra le mura del nostro dojo? In questo sta appunto tutto il nostro lavoro. Riconoscere il nostro tempo, ci aiuterà inevitabilmente a conoscere e tenere il tempo del nostro avversario, nell'auspicabile prospettiva della continuità, quando questa sarà richiesta (non da noi), nel ritmo spezzato, quando questo sarà imposto (questo sì, da noi). Ovvio che si tratti di uno studio complesso, una ricerca che non ha mai davvero fine (per fortuna, aggiungo), che ci vede impegnati ad ogni scambio, di volta in volta, con persone differenti così come con la stessa, ma che per inevitabile natura, mai si proporrà sempre ugualmente perfetta.  Divenendo così, con questa proposta sempre nuova, il vero tesoro del nostro allenamento, la vera ricchezza da far fruttare per il bene della nostra crescita, attraverso l'Arte che abbiamo deciso di seguire, attraverso un Aikido che per tutte queste ragioni, non sta mai fermo, di cui dovremmo imparare a conoscere la vera velocità.

domenica 15 gennaio 2012

Quello che non c'è

"Meraviglioso come a volte ciò che sembra non è".

Manuel Agnelli, Afterhours


Sembra difficile lo sò. Alle volte guardiamo, giudichiamo, soppesiamo, ci facciamo un'idea e poi pensiamo che sia lì, che il tutto si concluda con quell'idea, che non ci sia più bisogno di investirvi altro tempo e che, come sempre, abbiamo capito tutto noi. Sembra difficile dicevo, tornarvi e ridiscutere la nostra posizione, mettere in crisi (e come crisi in senso etimologico, vado a intendere il giudizio di un'idea), la nostra primissima impressione. Ma chi non cambia mai idea si sa, non cresce, e a me, per esempio, interessa crescere. Dunque ci si può imbattere in qualcosa che inizialmente non capiamo, perchè mancano alla nostra esperienza una serie di fattori che ci permettano una discussione oggettiva (o tendente a tale oggettività, che mi sembra pure più corretto), per poter davvero parlare di un fatto, di un'esperienza, per conoscenza diretta.
Poi c'è l'internet (con quell'articolo che tanto mi piace e che tanto geekizza e allontana da un'analisi troppo seriosa, che non prendo veramente in esame ora), con la sua comunicazione democraticamente allargata, questa meravigliosa libertà, in cui è possibile esprimersi totalmente, con la sicurezza quasi totale che questa barriera ci consente (che è lama a doppio taglio, però), del non dover per forza giustificare le nostre affermazioni, del non dover per forza argomentarle, insomma del non dover per forza empiristicamente dimostrare ad alcuno, che si ha propria cognizione di causa.
Ed è così che è possibile imbattersi in questo.
Lo shihan in questione si chiama Nobuyuki Watanabe, ed è uno dei maestri più anziani dell'Hombu Dojo Aikikai di Tokyo.
La prima cosa che notiamo, la cosa che più crea in noi una sorta di bisticcio mentale, è la totale assenza (o quasi) di 'contatto', tra il maestro e i suoi allievi. Ed in un contesto immaginario come quello dell'idea di arti marziali comunemente diffusa (vero luogo della mente, piuttosto che concretezza spicciola), è facile concludere che si tratti di un qualcosa di artificioso, non reale, con sincera crudeltà, semplicemente finto.
Ma a che cosa deve rispondere il video del maestro Watanabe? Quale è la domanda che ci si aspetta venga risolta da tale dimostrazione? Cosa vogliamo davvero "vedere" in quel video?
Con semplici domande come queste è già possibile l'instaurarsi dei dubbi sul nostro perentorio giudizio iniziale. Si perchè se è finto tutto ciò che vediamo, in base a quali parametri abbiamo stabilito che questa è finzione? Ed infine, cosa che sbilancia completamente tutto l'ordine di idee su cui ci poggiavamo, quale esperienza diretta, empirica, ci siamo costruiti su tale argomento? Conosciamo direttamente il maestro Watanabe? Sappiamo che cos'è o cosa non è l'Aikido? Abbiamo mai praticato l'Aikido?
No, non si tratta di giustificare un qualcosa, per il fine ultimo di far credere quanto efficace sia tale arte marziale (io personalmente, non me ne occupo quasi più), ma di pensare ad analizzare con un metro che prima non avevamo preso in considerazione. E per tornare all'analisi del video proposto, ciò che dobbiamo imparare a vedere è quello che in effetti non si vede, quello che non c'è.
E le primissime cose che non ci sono, sono principalmente due. La prima è il costrutto immaginario che ci imbroglia. La nostra personale idea di che cosa è un'arte marziale, dicevo; idea dunque influenzata da diversissimi fattori d'esperienza, che per processo automatico, vanno a catalogare quanto si è visto, considerandolo corrispondente o meno, alla nostra (e solo nostra) idea iniziale. E non ci si è ancora posti appunto, se ciò di cui siamo testimoni voglia dimostrare proprio la tesi che già vorremmo confutare. Si chiama non corrispondenza, questa.
La seconda, è diretta conseguenza  della prima, ovviamente. Siamo davvero in possesso di un'esperienza (tradotta in mezzi), che ci consenta di comprendere pienamente quello che abbiamo di fronte? Nella maggior parte dei casi, no.
Il video non palesa volutamente (è cioè decisione volontaria del maestro non mostrare, anche mostrando), quelle che sono le effettive linee d'entrata che si aprono nella difesa di uke, nella costruzione stessa dell'attacco, del tempo e della distanza con cui questo stesso viene condotto (ma-ai), il tutto evidenziato da un uke (fattore fondamentale), che è allievo diretto di Watanabe, e che quindi ha sviluppato negli anni una tale sensibilità da poter leggerne l'intenzione e sentire davvero un'entrata corretta su una linea, che non necessita più, a questo punto, di contatto diretto, perchè ad egli è visibile e concreta abbastanza. Questo perchè l'allenamento con tale maestro (allenamento durato anni) ha permesso all'uke di sviluppare una comprensione di che cosa è l'Aikido, su quali principi fondamentali si fonda e si muove, e allo shihan di concedersi la possibilità di non dover più intervenire palesando chiaramente un gesto, una posizione, una tecnica, ma solo accennarla. E' un lavoro profondo, che normalmente non viene compreso abbastanza e talvolta osteggiato. Ma di nuovo non credo (questa è convinzione mia personale), che lo stesso Watanabe pretenda sia così per tutti, ed aggiungo, altrettanto non credo sia auspicabile per chi, di pratica di Aikido, non ha che appena un ventennio. Ma ciò non mi autorizza, a svalutare e banalizzare il lavoro di un autorevolissimo maestro, che sul tatami ha passato un'intera vita (cinquantaquattro anni di pratica, si il conto l'ho fatto io per voi) a sudare e studiare questa incredibile Arte. Solo perchè io non vedo, quello che in effetti c'è.

domenica 8 gennaio 2012

Presumibilmente poichè sono un artista nelle arti marziali

Il vento avverso. Le persone pesanti.
L'ignoranza manifesta.
La superficialità e la supponenza.
Le umiliazioni e il correre come dei pazzi.
Parlare e avvertire chiaramente di non esser ascoltati.
La maleducazione e i finti sorrisi, il disordine e i disordinati,
il trovare soluzioni disperate all'ultimo minuto per problemi creati
ad arte da un mucchio di pezzi di merda.
Non ti preoccupare, non ti preoccupare.
Respira.
E' solo allenamento.